“La gente vuole ridere!” è una commedia grottesca scritta nel 1993, dove il confine tra la realtà e finzione si insegue e si mescola in un turbinio di personaggi e di situazioni esilaranti.
“La gente vuole ridere!” me lo sarò sentito ripetere mille volte, da quando ho iniziato a fare il mio mestiere, quasi trent’ anni fa. Ho cominciato in un periodo, gli inizi degli anni settanta, in cui il teatro andava molto di moda. Erano gli anni di Eduardo, Strehler, il primo Ronconi, De Simone, il Gruppo della Rocca… avevo meno di vent’ anni e per la mia generazione diventare “uno che fa teatro” era davvero “strafico”. Come me, tanti altri miei coetanei decisero di intraprendere la carriera del teatrante, io lasciai persino gli studi universitari per andare in tournée.
Molti altri, invece, dopo uno o due anni abbandonarono. Perché capivano che quella del teatro era una carriera molto spartana, poco remunerativa e, soprattutto, poco appariscente. E parliamo di anni, ripeto, in cui il teatro viveva un grande boom di immagine.
Ma poi, una serie di “batoste” hanno provveduto a ridimensionare fino a spegnere del tutto i riflettori puntati sul teatro.
Prima le grandi regie che hanno ridotto gli attori a semplici burattini, incapaci di emozionare, di esprimere una qualsiasi originalità.
Poi il richiamo del cinema che dava maggiori guadagni, fama e successo oggettivamente riconoscibili.
Infine la televisione che alle suddette prerogative del cinema aggiungeva il miraggio della facilità: nessun sacrificio per imparare a recitare, ricerca della spontaneità più superficiale, rapidità nel raggiungere l’ambizioso traguardo della fama. Il tutto sintetizzato oggi dal reality show.
Tutto questo, e altro ancora (ci sarebbe da scrivere tanto e da leggere poi troppo!) ha ridimensionato la figura dell’attore, e questo ridimensionamento ha danneggiato il teatro.
Perché il teatro è l’attore! Perché l’attore è voce e strumento dell’immaginazione, dell’illusione. Come dice Prospero nella Tempesta: “noi siamo fatti della stessa materia dei sogni”.
E il teatro è il luogo dei sogni e della fantasia. Fuori dal teatro l’attore si spegne, muore. Come un canarino tirato fuori dalla gabbia e messo in volo sul mondo, non ha gli strumenti per sopravvivere. Perché l’attore è una creatura fragile e meschina, è un paziente grave in prognosi riservata e il palcoscenico la sua sala di rianimazione. Non chiudete i teatri, vi ritrovereste una serie di disadattati agli angoli delle strade, con la mano tesa a chiedervi un po’ d’affetto, un po’ di luce, un po’ di soldi per mangiare.
In questo spettacolo noi attori siamo eccessivi e buffoni, guitti e sgrammaticati, ma perdonateci perché noi vogliamo solo sopravvivere e siccome ci hanno detto che la gente vuole ridere ci sbattiamo, gridiamo e sberleffiamo… ma lo facciamo, vi giuro, soltanto per vivere.”
Vincenzo Salemme
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